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Dove sono i marchi Made in Italy?

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Radici sartoriali: viaggio tra i marchi che sono ancora davvero Made in Italy

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Ida Galati
apr 23, 2025
∙ A pagamento
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Dove sono i marchi Made in Italy?
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C’è una differenza sottile, ma decisiva, tra un’etichetta e una promessa. “Made in Italy” non dovrebbe limitarsi a dire dove è stato fatto qualcosa, ma raccontare come è stato fatto. Con quale storia alle spalle. Con quale know-how, con quanto rispetto per il tempo, per le mani, per la materia.

Il problema è che - da ormai troppo tempo - si è pensato che bastasse l’apparenza (e quindi leggere “Italia” su un cartellino) per pensare che dietro ci sia un artigiano, una bottega, un sapere antico. Ma la verità è più complessa — e meno romantica.

A tal proposito c’è chi se ne approfitta talmente tanto da inventare sui social vetrine farlocche di poveri artigiani che non ce l’hanno fatta (magari anche madri abbandonate e in difficoltà) e che quindi svendono tutto il loro “ben fatto” e “fatto a mano”. Dietro aziende straniere che vendono fast fashion e che provano a far leva sui nostri valori e sulle nostre emozioni. Molto triste.

Ho messo in guardia dalla truffa non appena me ne sono accorta realizzando un video che trovate qui e ho visto che poco tempo fa ha denunciato la stessa cosa la Gabanelli nel suo DataRoom. Bene, più se ne parla e meglio è. La sua inchiesta più approfondita ha evidenziato come i prodotti in vendita siano cinesi e l’azienda dietro quest’organizzazione criminale sia olandese. Qui per guardare il suo servizio.

Inutile negare che negli anni, il Made in Italy sia diventato una formula da marketing globale, svuotata di coerenza, spezzettata tra Paesi e regolata da norme obsolete. Eppure, resta uno dei nostri simboli più potenti. Perché in quella dicitura non c’è solo una provenienza, c’è un’identità. Un’idea di bellezza. Un modo di stare al mondo.

Ma a noi non servono altri slogan. Ci serve verità.

E allora cosa rimane davvero del Made in Italy? Chi è rimasto? Vediamolo insieme.

Cosa significa davvero “Made in Italy”?

Forse questo lo sapete già in molti: il “Made in Italy” è spesso più un’etichetta evocativa che una garanzia concreta. Secondo la legge 166/2009, infatti, un prodotto può dirsi Made in Italy solo se le sue fasi principali — ideazione, lavorazione e confezionamento — avvengono tutte in Italia. Ma la realtà è più sfumata: molti capi che portano quella scritta sono solo “rifiniti” in Italia, con materiali o manodopera esterna.​

Eppure, ci sono marchi che resistono. Che scelgono, con ostinazione e orgoglio, di non delocalizzare.​ O di tornare. O addirittura di trasferirsi in Italia riconoscendone ancora il valore. Vediamo chi sono e partiamo dall’esempio più virtuoso che mi viene in mente.

I marchi che resistono: Brunello Cucinelli

Fondata nel 1978, l'azienda Brunello Cucinelli ha sede a Solomeo, un borgo umbro restaurato dallo stesso Cucinelli. La produzione è interamente italiana, con circa 400 laboratori artigianali coinvolti, di cui il 70% lavora esclusivamente per il marchio. I salari sono superiori alla media e gli orari di lavoro equilibrati. ​Il ritmo è lento (e conosco chi internamente me lo ha confermato, quasi stranito dal dover cambiare velocità e imparare un altro passo).

Come fa? Può diventare un esempio virtuoso anche per gli altri?

​Brunello Cucinelli riesce a produrre interamente in Italia grazie a una combinazione di scelte etiche, strategiche e culturali che hanno trasformato il suo marchio in un modello virtuoso di manifattura contemporanea.

Un modello produttivo radicato nel territorio

Fin dalla fondazione dell'azienda Cucinelli, radicato nel suo passato contadino e ispirato dal legame affettivo della moglie con il luogo, ha visto in Solomeo l’habitat ideale per incarnare il suo modello di capitalismo umanistico: un’idea di impresa che mette al centro la dignità dell’uomo, la bellezza del paesaggio e la qualità del lavoro. Così ha deciso di restaurare e trasformare quel piccolo borgo medievale umbro in un centro di produzione, cultura e formazione, ottenendo così un controllo diretto sulla qualità e una stretta collaborazione con artigiani locali, ma non solo.

Nel borgo gli uffici e i laboratori non si nascondono dietro capannoni industriali, ma si fondono con l’architettura storica del paese. Ogni casa è un laboratorio, ogni via è parte di un tessuto produttivo e umano. La fabbrica, nella visione di Cucinelli, torna a essere bottega: un luogo di trasmissione viva del sapere artigiano, dove il lavoro non è alienazione, ma espressione.

Per oltre vent’anni, Cucinelli ha investito il 20% del fatturato aziendale nel restauro di Solomeo: dalla chiesa di San Bartolomeo alla viabilità del borgo, ogni intervento è stato guidato dalla volontà di restituire bellezza, spiritualità e senso comunitario.

Il risultato non è solo estetico. Questo contesto ha alimentato creatività, serenità, scambio di idee e relazioni autentiche tra collaboratori. Un clima che, secondo Cucinelli, è alla base della qualità del prodotto e della forza dell’impresa. Anche la nuova sede aziendale, pur moderna, è immersa nel verde, tra cedri e frutteti, per mantenere intatto quel dialogo tra lavoro, natura e umanità.

Solomeo, oggi, non è solo un borgo: è un manifesto vivente di un altro modo di fare impresa. E forse, anche di un altro modo di stare al mondo.

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